Nel cuore di Berlino, non distante dal Checkpoint Charlie, nel quartiere Kreuzberg, c’è il Museo ebraico di Libeskind, un’architettura decisamente simbolica volta a raccontare la storia sociale e culturale degli ebrei in Germania.
Abbiamo avuto modo di visitare il Jüdisches Museum Berlin nel corso della tre giorni a Berlino e consigliamo a chiunque passi in zona di soffermarsi. Il Museo Ebraico è costituito essenzialmente da due parti: il “vecchio edificio”, di origine barocca, e l’edificio – ampliamento – di Libeskind.
Anticipiamo subito che l’attenzione di questo post si soffermerà principalmente a raccontare l’architettura di Libeskind più che le altre parti del museo o l’esposizione. Nel farlo utilizzeremo anche le parole dello stesso architetto, che si possono ascoltare nel corso della visita al museo attraverso l’audioguida, davvero consigliata per comprendere l’opera.
Storia del museo ebraico
Negli anni settanta, a seguito della chiusura della sede storica del museo da parte del regime nazista nel 1938 e il successivo trasferimento in altra sede museale nella Germania dell’Ovest, un comitato promosse il progetto di un nuovo museo ebraico, che potesse ospitare l’intera collezione.
Nel 1988 venne indetto un concorso internazionale per progettare la nuova sede, e questo venne vinto dall’architetto Daniel Libeskind. Nel 2001 il progetto venne completato con anche il riconoscimento di Fondazione federale, senza dunque dipendere dal Museo Statale di Berlino.
L’architettura di Libeskind per il museo ebraico
L’architettura simbolica e decostruttivista di Daniel Libeskind emerge chiaramente nel suo progetto per il museo dedicato agli ebrei, nato con lo scopo di narrare il ruolo della comunità ebraica fino alla Shoa. La volontà di raccontare la storia della cultura ebraico-tedesca, la memoria della comunità, da parte dell’architetto era forte: la sua famiglia, ebrea polacca è infatti stata vittima del nazismo. La progettazione deriva infatti interamente dalla sua sfera personale, i genitori erano sopravvissuti all’olocausto ma decine di parenti vennero uccisi.
Una stella di David stilizzata e spezzata o più semplicemente una saetta, un fulmine è questa l’impronta in pianta che l’ampliamento dell’architetto polacco, naturalizzato statunitense ha disegnato. Non è chiara quale fosse la vera intenzione ma l’andamento zig-zagante è chiaro.
Il vecchio edificio e quello nuovo visti da fuori non sembrano collegati tra loro. Nella parte nuova del museo ebraico non c’è un accesso autonomo ma ci si arriva solo dall’interrato, un collegamento che avviene attraverso una rampa. “Nessun ponte tra loro perchè non ce ne è nessuno tra epoca barocca, quella della vecchia Berlino prima del 1933, ed epoca presente” questo quanto sostiene Libeskind. “Per questo”, continua, “il ponte è nel sottosuolo, giace nell’oscurità come l’oscurità di quel che è successo, non è solo un’oscurità concettuale ma anche forma di violenza.”
Il rapporto con la città
Il progetto di Libeskind del Museo Ebraico a Berlino, si inserisce nel contesto cittadino con due forme di rispetto. In primis la linea di massimo sviluppo in verticale coincide con la linea di gronda dell’edificio precedente, ex-sede barocca dell’antico tribunale supremo. Secondariamente o, in pianta, dunque con vista zenitale, la “saetta” si inserisce bene con l’ambiente circostante fatto di parchi e giardini. In generale, c’è un grande rispetto nell’essere completamento di un edificio preesistente.
In prospetto quella che in architettura si definisce “pelle”, ossia la superficie di rivestimento in zinco e titanio, risulta sfregiata. Le ferite irregolari che irrompono in facciata non sono nient’altro che tagli di luce, al posto delle tradizionali finestre. L’immagine che appare evidente è quella di forte introversione.
Between the Lines
Il senso di disorientamento che si ha una volta giunti nell’interrato è notevole: pavimento e pareti sono tutte storte, nessun angolo a 90 gradi. I corridoi sono sì dritti ma si incrociano tra loro. Essi sono i tre percorsi, definiti da Libeskind assi. Essi simboleggiano i diversi destini degli ebrei sotto il regime nazional-socialista. Emerge dunque il tema del percorso, estremamente importante così in molti altri casi in architettura.
I tre assi sono: asse dell’olocausto, asse dell’esilio, asse della continuità. Ognuno racconta una storia, “ognuno ha in mente una persona, ed offre una diversa percezione di come il corpo si relaziona alla gravità”. Si intersecano varie volte mai in modo perpendicolare, come profonde cesure nella continuità della vita ebraica.
Il progetto è stato denominato da Libeskind Between the Lines ed il motivo è presto detto. Le linee sono due, una reale ed una immaginaria tra le quali si sviluppano i void, spazi vuoti.
Tra assi e Void : l’interno del museo ebraico di Libeskind a Berlino
La prima è la pianta stessa, a zig zag, la seconda è la retta che attraversa, tagliandola. Ogni volta che si intersecano si crea un void, uno spazio vuoto che si sviluppa dal sotterraneo al tetto. Tali vuoti simboleggiano la distruzione della vita ebraica, quel che non è mostrabile. Lo spazio di incontro delle linee è dunque “caratterizzato dall’assenza, uno spazio fisico non concettuale ma reale”. Sono questi il centro stesso del museo, e “rappresentano l’assenza di persone, di famiglie, di cose, creata dallo sterminio di 6 milioni di ebrei”.
Il nostro percorso inizia dall’Asse dell’esilio. Sulle pareti nomi di città di tutto il mondo, luoghi dove gli ebrei hanno trovato riparo dalla persecuzione nazista. In pendenza come a destabilizzare il visitatore, si sale lungo l’asse che porta ad un’uscita, che simboleggia la speranza.
Dalla porta si esce sul giardino dell’esilio. Esilio come speranza ed incertezza. Molte vie e nessun traguardo evidente. E’ un giardino simbolico con terreno inclinato, su una pianta a base quadrata su cui si ergono 49 (numero biblico) colonne quadrate in cemento, disposte su una griglia di sette per sette. La colonna centrale in sommità è riempita con terra di Israele mentre le altre con terra di Berlino.
Questo simbolismo rimanda anche al 1948, l’anno della creazione dello stato di Israele e l’esilio. E’ forte il senso di instabilità del visitatore che si muove su una pavimentazione irregolare, con linee e superfici oblique. Una sensazione voluta per ricreare la sensazione dell’esilio. Sulla sommità delle colonne crescono dei piccoli arbusti.
L’asse dell’olocausto, vede ai lati la presenza una serie di vetrine contenenti lettere e oggetti della vita quotidiana che appartenevano a ebrei uccisi nel campo di concentramento. Le vetrine sono come un nastro nero di frammenti: solamente avvicinandosi si riesce a scorgere il contenuto. Sulle pareti sono scritti i nomi dei campi di concentramento. L’asse, percorrendolo, diventa sempre più basso e buio.
Si giunge così alla torre dell’olocausto. Una volta che si entra si trova esclusivamente un vuoto all’interno di una torre in calcestruzzo e solamente una feritoia in alto ad illuminarla.”Uno spazio aperto alle interpretazioni“.
Il terzo asse è quello della continuità, il più stretto e lungo, dimostra che la vita ebraica persiste con un presente ed un futuro, nonostante l’intersezione degli altri due assi. L’asse porta ad una “scala verso il cielo” o scala della continuità che porta verso la luce ma ad una parete bianca, spoglia.
Shalechet
Al pianoterra dell’edificio di Libeskind la Galleria Erik Ross una sala espositiva con esposizioni temporanee e installazioni artistiche. L’installazione che noi troviamo al momento della visita è particolarmente significativa nel Memory Void infatti c’è l’installazione “foglie morte” (Shalechet) dell’artista israeliano Menashe Kadishman. Oltre 10mila visi di metallo posti sul pavimento come foglie autunnali sulle vie delle città. I volti sono tutti diversi tra loro e molto pesanti. A riempire lo spazio è il rumore metallico provocato dal passeggiare (che è permesso) per poter utilizzare l’installazione. Davvero significativa.
Info e approfondimenti
LXII 1998 Giugno 657 – Casabella n. 657, febbraio 1998
Sito ufficiale del Museo Ebraico di Libeskind a Berlino
Ho usato i mezzi dell’architettura per raccontare una storia che va oltre la narrazione fatta di parole, una storia rivolta all’anima, al cuore
[Daniel Libeskind]
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